Ricordo che quando ero bambina la scuola
cominciava il primo ottobre. L’autunno era arrivato da poco, ma aveva
già annunciato le sue sembianze dalle prime foglie secche, calde
dell’ultimo sole e variegate nelle sfumature policrome che si
presentavano ai nostri occhi quando, sparse sui marciapiedi alberati,
noi le calpestavamo impietosamente lungo il tragitto che ogni mattina
percorrevamo per giungere nella nostra scuola elementare del piccolo
paese alla periferia di Milano, dove mio padre si era trasferito dal
Sud.
Ogni passo sulle foglie adagiate al suolo produceva un curioso
scricchiolio che ci divertiva e, naturalmente, ancora di più ci rendeva
felici calpestare quel tappeto ramato e quasi partecipe del nostro
gioco. Mentre vengono alla mente queste immagini percepisco un sottile
velo di nostalgia che lentamente si insinua tra reminiscenze che
prendono forma e si animano… Non voglio ricordare con tristezza un
periodo dolce e caro quale è stato quello della mia infanzia trascorsa
al Nord.
La nebbia si dirada mentre rammento la gioia che provavo quando si
partiva la mattina presto per andare a scuola, io e mio fratello, quasi
coetanei, e perciò frequentanti la stessa classe! Mia madre, già sveglia
sin dalle prime ore dell’alba, intenta a preparare la gavetta per il
pranzo di papà che restava al lavoro tutto il giorno, aveva la tenera
abitudine di salutarci, affacciandosi dal balcone del 3° piano del
nostro condominio tanto, ma tanto grande e popolato. I primi riverberi
di sole che diradavano la nebbia e la brina della notte, uno scialle
sulle spalle e la mano che, salutando, ci impartiva metaforicamente le
ultime raccomandazioni! Mi sembra di vederla ancora adesso, la mia
mamma, bella e giovane, premurosa, solerte, che ha attraversato la mia
vita, accarezzato le mie ore e che ora ha lasciato il posto alle
lacrime! Una donna forte come sanno essere le donne del Sud degli anni
‘60, all’indomani della guerra e delle privazioni, ai margini di un
illusorio “boom economico” che ha contribuito a rendere ancora più netta
la distinzione tra Nord e Sud di un’Italia che tentava di riprendere in
mano la propria autonomia, nello sforzo di risvegliarsi dalle
devastazioni del secondo dopoguerra, con il risultato di un decollo
economico e sociale che avveniva prevalentemente nelle zone
settentrionali del paese, mentre il Meridione annaspava ancora nel
pantano archetipico di arretratezza e povertà. Tutto questo spinse tante
famiglie del Mezzogiorno ad avventurarsi tra le foschie della Valpadana
e a rischiare a volte anche la propria dignità pur di garantire un
tenore di vita più stabile ai propri cari. Ancora oggi mi sconvolge la
parola “terrone” proprio perché è sinonimo di un retaggio oltremodo
avvilente per chi si sente ingiustamente etichettato in virtù di
pregiudizi meschini e decisamente gretti. Ho vissuto finora con la
consapevolezza che certi preconcetti non si potranno mai estirpare e, ad
un certo punto, ho abbandonato le mie giovanili rivendicazioni con il
risultato di ammorbidire l’amarezza e attutirla rivolgendola verso un
crepuscolare ripiegamento interiore che ridimensiona l’esperienza
provata nel momento in cui la si è vissuta. La mamma, sullo sfondo di un
paesino della provincia milanese, diventa una sorta di icona e mi
induce ad una purificazione dei miei tormentati anni trascorsi a
cercare giuste forme di convivenza, rappacificandomi con antichi sensi
di colpa per non aver compreso l’importanza di ciò che i miei genitori
stavano costruendo per garantirci un futuro migliore. Dapprima, io
ancora bambina, non ho compreso il motivo di quella partenza, ma pian
piano ho pensato che lì fosse il mio vero posto, lì dove c’era la vita
di tutti i giorni, i giochi con i compagni, le corse nei prati che in
primavera si coloravano come per magia ed erano campo di mille avventure
per tramutarsi in candide distese innevate negli inverni freddi
allietati dalle vacanze natalizie e dalle visite dello zio di Roma che
ci inondava di regali. Ho ancora negli occhi fantastici pupazzi di neve,
simili a quelli che si vedono nei cartoni animati, e le ansiose ronde
per vedere se il pupazzo si sarebbe sciolto o infangato. Quanta
esultanza! Quanta spensieratezza! È proprio vero che il passato rivive
quando le emozioni vissute sono state così intense da essere impresse
nell’anima! Se chiudo gli occhi rivedo quella bambina col grembiule
nero e un grande fiocco blu, lesto a disfarsi ad ogni mossa, una
cartella di cartone sulle spalle con dentro due quaderni piccoli e un
libro dall’odore caratteristico che ancora oggi non saprei definire, ma
che è vivo in me. Come sono diversi, oggi, i miei giorni! Come sono
cambiata e quanto ho vissuto all’ombra di stagioni che sono scivolate
senza una ragione consumando la mia vita! Non riesco a tenere a bada
questa matassa di ricordi che si dipana intrufolandosi nei recessi
remoti della memoria, annodandosi su attimi o forse secoli di esistenza.
Il tempo è così facilmente ingannevole da confondere l’intensità con la
durata fino a suggellare un’eternità istantanea che si sgretola
irrimediabilmente nel vano tentativo di raccogliere i cocci che si
disperdono.
Maria Rosaria Teni