giovedì 18 gennaio 2018

“Memorie di un pomeriggio d’autunno”


Ricordo che quando ero bambina la scuola cominciava il primo ottobre.  L’autunno era arrivato da poco, ma aveva già annunciato le sue sembianze dalle prime foglie secche, calde dell’ultimo sole e variegate nelle sfumature policrome che si presentavano ai nostri occhi quando, sparse sui marciapiedi alberati, noi le calpestavamo impietosamente lungo il tragitto che ogni mattina percorrevamo per giungere nella nostra scuola elementare del piccolo paese alla periferia di Milano, dove mio padre si era trasferito dal Sud.
Ogni passo sulle foglie adagiate al suolo produceva un curioso scricchiolio che ci divertiva e, naturalmente, ancora di più ci rendeva felici calpestare quel tappeto ramato e quasi partecipe del nostro gioco. Mentre vengono alla mente queste immagini percepisco un sottile velo di nostalgia che lentamente si insinua tra reminiscenze che prendono forma e si animano… Non voglio ricordare con tristezza un periodo dolce e caro quale è stato quello della mia infanzia trascorsa al Nord.
La nebbia si dirada mentre rammento la gioia che provavo quando si partiva la mattina presto per andare a scuola, io e mio fratello, quasi coetanei, e perciò frequentanti la stessa classe! Mia madre, già sveglia sin dalle prime ore dell’alba, intenta a preparare la gavetta per il pranzo di papà che restava al lavoro tutto il giorno, aveva la tenera abitudine di salutarci, affacciandosi dal balcone del 3° piano del nostro condominio tanto, ma tanto grande e popolato. I primi riverberi di sole che  diradavano la nebbia e la brina della notte, uno scialle sulle spalle e la mano che, salutando, ci impartiva metaforicamente le ultime raccomandazioni! Mi sembra di vederla ancora adesso, la mia mamma, bella e giovane, premurosa, solerte, che ha attraversato la mia vita, accarezzato le mie ore e che ora ha lasciato il posto alle lacrime! Una donna forte come sanno essere le donne del Sud degli anni ‘60, all’indomani della guerra e delle privazioni, ai margini di un illusorio “boom economico” che ha contribuito a rendere ancora più netta la distinzione tra Nord e Sud di un’Italia che tentava di riprendere in mano la propria autonomia, nello sforzo di risvegliarsi dalle devastazioni del secondo  dopoguerra, con il risultato di un decollo economico e sociale che avveniva prevalentemente nelle zone settentrionali del paese, mentre il Meridione annaspava ancora nel pantano archetipico di arretratezza e povertà. Tutto questo spinse tante famiglie del Mezzogiorno ad avventurarsi tra le foschie della Valpadana e a rischiare a volte anche la propria dignità pur di garantire un tenore di vita più stabile ai propri cari. Ancora oggi mi sconvolge la parola “terrone” proprio perché è sinonimo di un retaggio oltremodo avvilente per chi si sente ingiustamente etichettato in virtù di pregiudizi meschini e decisamente gretti. Ho vissuto finora con la consapevolezza che certi preconcetti non si potranno mai estirpare e, ad un certo punto, ho abbandonato le mie giovanili rivendicazioni con il risultato di ammorbidire l’amarezza e attutirla rivolgendola verso un crepuscolare ripiegamento interiore che ridimensiona l’esperienza provata nel momento in cui la si è vissuta. La mamma, sullo sfondo di un paesino della provincia milanese, diventa una sorta di icona e mi induce ad una  purificazione dei miei tormentati anni trascorsi a cercare giuste forme di convivenza,  rappacificandomi con antichi sensi di colpa per non aver compreso l’importanza di ciò che i miei genitori  stavano costruendo per garantirci un futuro migliore. Dapprima, io ancora bambina, non ho compreso il motivo di quella partenza, ma pian piano ho pensato che lì fosse il mio vero posto, lì dove c’era la vita di tutti i giorni, i giochi con i compagni, le corse nei prati che in primavera si coloravano come per magia ed erano campo di mille avventure per tramutarsi in candide distese innevate negli inverni freddi allietati dalle vacanze natalizie e dalle visite dello zio di Roma che ci inondava di regali. Ho ancora negli occhi fantastici pupazzi di neve, simili a quelli che si vedono nei cartoni animati, e le ansiose ronde per vedere se il pupazzo si sarebbe sciolto o infangato. Quanta esultanza! Quanta spensieratezza! È proprio vero che il passato rivive quando le emozioni vissute sono state così intense da essere impresse nell’anima!  Se chiudo gli occhi rivedo quella bambina col grembiule nero e un grande fiocco blu, lesto a disfarsi ad ogni mossa, una cartella di cartone sulle spalle con dentro due quaderni piccoli e un libro dall’odore caratteristico che ancora oggi non saprei definire, ma che è vivo in me. Come sono diversi, oggi, i miei giorni! Come sono cambiata e quanto ho vissuto all’ombra di stagioni che sono scivolate senza una ragione consumando la mia vita! Non riesco a tenere a bada questa matassa di ricordi che si dipana intrufolandosi nei recessi remoti della memoria, annodandosi su attimi o forse secoli di esistenza. Il tempo è così facilmente ingannevole da confondere l’intensità con la durata fino a suggellare un’eternità istantanea che si sgretola irrimediabilmente nel vano tentativo di raccogliere i cocci che si disperdono.
Maria Rosaria Teni

Nessun commento:

Posta un commento